L'8 aprile del 1961, al termine del GP di Monaco di
F.1, il britannico Denis Jenkinson, tra i più grandi giornalisti nella storia
del motorismo, scrisse: "Dopo la gara ho valutato tutti i partenti sul mio
taccuino, classificandoli in: senza speranza, forti, disordinati, molto buoni,
lodevoli, rilassati. E un artista". L'artista era Stirling Moss, che quel giorno
aveva conquistato il successo con una Lotus. A più di 57 anni di distanza, la
stessa frase può essere applicata al Mondiale 2018. L'artista, in questo caso, è
Lewis Hamilton. Basterebbe aver visto il giro pazzesco grazie al quale ha
conquistato la pole position a Singapore, oppure osservato l'intero fine
settimana di Monza in cui ha messo nel sacco le due Ferrari che sembravano
superiori alla sua Mercedes. Ma è tutta la carriera di Hamilton in F.1, che solo
ora si riesce a mettere davvero in prospettiva, a dire che Lewis sta segnando
un'epoca. Hamilton, con Moss, non ha nulla in comune dal punto di vista del
palmares: Stirling è famoso per non aver mai conquistato il Mondiale. Ma ha
molto da condividere se parliamo di talento. E anche di squadre, visto che
entrambi hanno corso con Mercedes vincenti. Stirling negli Anni 50, insieme a
Juan Manuel Fangio che Lewis ha agganciato con il sigillo sul quinto titolo
Mondiale. Tra i due inglesi, qualche anno fa a Monza, andò in scena un ideale
passaggio di consegne pilotando sulla sopraelevata del circuito brianzolo le
Frecce d'argento di più di sessant'anni fa. Hamilton si divertì parecchio,
facendosi raccontare dal connazionale le storie uniche e il coraggio di quei
tempi. E sgranando gli occhi davanti a vetture che restano una meraviglia di
design e ingegneria.
Perché Lewis, a dispetto dell'immagine glamour che
proietta quando è lontano dalle piste, è un grande innamorato delle corse e
anche delle più belle automobili da strada che ci siano. Di oggi e di ieri. A
Maranello lo conoscono bene, visto che almeno un paio di volte si è presentato a
ritirare le Ferrari che aveva acquistato. Chissà se con lo sconto… Le porta in
giro per Los Angeles, dove passa parte del suo tempo, così come a New York e
tanti altri posti nel mondo. Perché quest'uomo di 33 anni, nato in una cittadina
fatta di case popolari una quarantina di chilometri a nord di Londra, è
cresciuto enormemente, di pari passo con i suoi successi. E qui si apre il
discorso chiave per spiegare il fenomeno Hamilton, dominatore dell'ultima era
della F.1, che per diventare tale ha "ucciso" due volte il padre. Gettando così
le fondamenta per la sua grande metamorfosi. La prima volta è successo quando si
è "liberato" della presenza di papà Anthony, da sempre manager e consigliere. Lo
ha fatto a fatica, perché il padre è stato l'uomo che, mettendo insieme anche
quattro lavori contemporaneamente, gli ha permesso di coltivare il sogno di
diventare pilota e campione, partendo da un kart di terza o quarta mano. Questo
Lewis non l'ha mai dimenticato. Ma era ora di staccarsi, di prendere decisioni
in prima persona, di camminare con le proprie gambe. La stessa cosa si è
ripetuta con Ron Dennis, il "padre" agonistico che l'ha portato con cura fino in
F.1 dopo che a soli 12 anni, incontrandolo a una premiazione, Hamilton gli aveva
intimato: "Un giorno correrò per te nei Gran Premi". In quella sicurezza, ai
limiti della sfacciataggine, Dennis ha intuito qualcosa di grande e ha
accompagnato Lewis fino al volante della McLaren. Nel 2007 rappresentava una
gran bella porta di ingresso nei GP. Tanto che Hamilton, e qui ci sono i segnali
del predestinato, arrivò a un pelo dal conquistare il Mondiale nell'anno di
esordio. Battendo, nella stessa squadra, un certo Fernando Alonso, reduce dai
due titoli vinti con la Renault.
Dennis, grande visionario ma uomo fatto anche di convinzioni granitiche, non
incoraggiava certo Lewis a esprimere la personalità che un ragazzo curioso e
affamato della vita voleva sviluppare. Anche per questo Hamilton, a fine 2012,
se n'è andato alla Mercedes. Una robusta scommessa, in quel momento. Una
decisione geniale, col senno di poi. Perché, oltre ad aver sposato un team
fortissimo nell'era delle power unit ibride, ai vertici delle Frecce d'argento
l'inglese ha trovato due persone molto importanti che l'hanno capito,
assecondato, consigliato e aiutato. Toto Wolff, il team principal, gli ha
concesso la libertà di scoprire una vita nuova, fatta di giri per il mondo, di
frequentazioni di personaggi dello spettacolo e della moda. Come in fondo
succedeva anche negli anni di Moss e Fangio, quando soubrette e attrici erano
fidanzate con i piloti e nessuno gridava allo scandalo. Anzi, era materiale da
rotocalco che piaceva tanto ai lettori. Con questa nuova libertà Hamilton è
cresciuto come uomo che, con il movimento frenetico nei vari luoghi in cui lo
porta il suo aereo privato, si ricarica per i weekend in pista. L'altra figura
fondamentale per lui è rappresentata da Niki Lauda. Il tre volte iridato,
presidente non esecutivo della Mercedes di F.1, prima l'ha convinto a lasciare
la McLaren e poi ha lavorato sui pochi difetti di un pilota velocissimo e, in
qualche modo, desideroso di mostrare sempre il suo grande talento, di vincere
anche quando non si poteva. Niki, maestro di strategia e intelligenza al
volante, ha saputo toccare le corde giuste e oggi l'inglese è ancora più forte
perché ha imparato a non buttare via niente, a raccogliere punti preziosi quando
la giornata non è propizia, quando la monoposto non è al massimo. Così si
vincono i Mondiali e lui lo sta dimostrando. Cinque titoli in F.1 sono
un'enormità. Non devono stupire. Hamilton in questo momento mette insieme il
talento eccezionale di partenza, la maturità acquisita in dodici anni di Gran
Premi, la personalità coltivata cercando ostinatamente di aprire i suoi
orizzonti. È l'icona globale del suo sport. Anche se a far capire perché è
entrato nella storia basterebbe un giro di pista dei suoi. Quello di un artista.
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