10 settembre 2006 -
NON FAREMO a Michael Schumacher il torto di
proclamarlo il più grande pilota di tutti i tempi, anche se questo dicono le
statistiche. Non gli faremo questo torto perché ricordiamo la sua reazione
quando gli misero sotto il naso le macchine con le quali Ciccio Ascari e
Manuel Fangio vincevano corse e mondiali. Io, disse il tedesco con un filo di
voce, non sarei mai stato capace di rischiare la vita ad ogni gara, come
invece facevano loro.
L’ONESTÀ intellettuale dell’uomo lo ha reso,
invece, il Migliore per l’era della modernità. Davvero: nell’epoca
dell’elettronica, dei computer, delle gomme, delle strategie sofisticate e
della esasperazione tecnologica, Schumi è diventato il Campionissimo. Nessuno
come lui sa creare la differenza, miscelando e reinterpretando le leggi della
telematica applicate alla automobile. Il marito di Corinna ha firmato imprese
enormi, sulla pioggia come sull’asciutto, degne della leggenda dei
predecessori antichi, non quando ha avuto in mano la Ferrari dei record, con
la quale se la cavava Barrichello e se la cava, nel presente, il piccolo
Massa. No: Schumacher si è imposto come Lider Maximo nei momenti in cui
guidava vetture non irresistibili. Sembra un controsenso, eppure non lo è: chi
scrive lo ha visto conquistare mondiali con una Benetton che andava più piano
della Williams e con una Rossa che non valeva la McLaren di Hakkinen. Di più:
sbalordiscano pure gli ingenui, ma il Michelone supremo è stato quello del
1997, l’anno della famigerata collisione di Jerez con Villeneuve. Perché aveva
una monoposto troppo inferiore però, fino alla curva fatale, stava davanti.
Così come, nel 1998, vinse sei Gp e lottò fino all’ultimo per il titolo a
dispetto di una cronica mancanza di competitività della Rossa.
LO DICIAMO? Lo diciamo e al diavolo le prudenze
da sagrestia: senza di lui, a Maranello aspetterebbero e aspetteremmo tuttora
la fine del digiuno lungo 21 anni, un digiuno da lui spezzato nell’anno del
Signore 2000, a Suzuka. Beninteso, Montezemolo è stato grande, Todt è stato
bravissimo e la squadra è eccezionale: ma l’anima della rinascita, il motore
umano di una resurrezione sportiva ed industriale, aveva la faccia, la carne e
le ossa, i nervi e la mascella sghemba del figlio di Rolf e di Elizabeth.
MERITO di una competenza da rabdomante della
tecnica: di una macchina appena uscita dalla officina, il fratello di Ralf
sapeva individuare dopo pochi giri pregi e difetti, limiti e prospettive. A
questo talento ha aggiunto la qualità umana: con chi gli sta accanto, Michael
è diversissimo da come appare in pubblico. Non è scostante, distaccato,
algido, presuntuoso, inavvicinabile. Ci occupassimo di calcio, disciplina da
lui amatissima, diremmo che è il classico «uomo da spogliatoio»: affidabile,
mai disposto a scaricare su altri le responsabilità. Nel 1999 un errore del
team lo ha quasi ammazzato, a Silverstone: mai se ne è lamentato. Da fuori, lo
abbiamo ammirato e rispettato, senza riuscire a venerarlo. Colpa di una
identità rigorosamente estranea a qualunque forma di popolarità gratuita. Il
signor Schumacher ha difeso il mondo privato con tenacia: non avete mai visto
una foto dei due figli, Gina Maria e Mick. Non è mai stato pizzicato in
discoteche alla moda o su barche frequentate da paraculi da rotocalco. Una
riservatezza totale. Un alieno, anche per la Formula Uno dei giorni nostri:
Raikkonen, il successore designato, ha sposato Miss Scandinavia mentre Alonso
flirta con una cantante iberica. Ha ragione chi sostiene che Michelone non è
entrato nel cuore della gente come invece aveva saputo fare Ayrton Senna, che
pure non si calò nell’abitacolo della Ferrari. Non c’entra il lato oscuro
della forza, che a Jerez e altre volte ha spinto Schumi verso comportamenti
poco brillanti o sleali. Anche il brasiliano non risparmiava scorrettezze. Ma
era, a suo modo, un mostro delle pubbliche relazioni e aveva tratti di
espansività molto ‘latini’. Schumi si è confrontato con lui per l’intera
carriera, senza pretendere di copiarlo. Da bambino, un bambino cresciuto in
una famiglia povera, Michael era ossessionato dal demone della velocità.
Installato su un kart, era capace di prodezze mirabolanti. Si innamorò del
mito di Ayrton vedendolo gareggiare in Belgio: ne diventò aspro rivale una
volta approdato in F1 a Spa, nel 1991. L’anno dopo fecero quasi a cazzotti:
perché Senna intuiva il rischio rappresentato dall’arrembante tedesco, che nel
duello metteva la furia del demolitore.
LASCEREMO ai tromboni stabilire chi, tra i due,
sia stato più forte e più grande. Di sicuro Schumi, nella fase terminale della
carriera del brasiliano, si poneva come il candidato alla successione. Mica
poco, se si pensa che Ayrton aveva mandato in pensione Prost, liquidato Piquet
e contenuto gli slanci picareschi di Mansell. Nel giorno crudele di Imola ’94,
in scia all’idolo rimosso che andava a morire c’era lui, c’era Michelone,
unico testimone oculare della tragedia. Una tragedia mai dimenticata. E per
completare il discorso sul dualismo che svanì davanti all’orrido muro del
Tamburello, risponderemo qui ad una contestazione che ha perseguitato il
Fenomeno dei record. Bella fatica, è stato detto: contro di lui, non c’era più
nessuno, dopo l’addio di Senna e le rinunce dei suoi contemporanei. Beh, non è
vero. In quindici anni, i rivali del dittatore tedesco si sono esposti a
dolorose figuracce. Chi ricorda più gli entusiasmi suscitati dal figlio di
Gilles o da Montoya? Chi ha memoria dei proclami di Giovannino Alesi o di
Rubens Barrichello? E Hakkinen, il più tosto tra gli sfidanti, ha alzato
bandiera bianca con largo anticipo, logorato dall’irriducibile di Kerpen.
Forse solo Alonso, aiutato dal gap generazionale, ha creato problemi, anche
psicologici, ad uno Schumacher nel frattempo inevitabilmente invecchiato. Nato
nel 1969, iridato per la prima volta con la Benetton dello scopritore Briatore
nel 1994, padrone del mondo con la Ferrari ininterrottamente dal 2000 al 2004,
Michelone ci mancherà perché è un privilegio essere coevi di un fuoriclasse
unico. Monomaniacale nella dedizione al lavoro, sempre felice di guidare
un’auto da corsa, capace di resistere per undici anni alle pesantezze di noi
italiani (ma si può rompere le scatole al crucco perché non sa parlare la
lingua di Dante? Si può, si può…), Schumi ha riscritto la storia non per i
moltissimi miliardi che ha guadagnato, bensì per il piacere puro di sentirsi
inimitabile. Date retta: uno così, non nasce più.
di Leo Turrini