Qualunque sia la vostra opinione, sono sicuro che anche per voi, se amate
davvero l'automobilismo, nelle classifiche degli ultimi dieci anni manca
un nome. Continua a mancare. Come è giusto che sia la potenza
mediatica della ricorrenza tragica sta riportando alla ribalta, sui giornali e
alla tivù, la leggenda di Ayrton Senna. Bene ha fatto Andrea De Adamich, che è un
gentiluomo svizzero nato per caso nella nostra Italia plebea, bene ha fatto
Andrea dicevo, a inserire nel suo programma, Grand Prix, un appuntamento fisso
dedicato alla memoria del campionissimo paulista. Tra l'altro sono sempre più
rare, sul video, le oasi di intelligenza: ormai c'è un'intera generazione che di
Ayrton ha solo sentito parlare e sia lode allora a chi tenta di recuperare il
passato migliore, salvandolo dall'oblio. Naturalmente la forza del Decennale
genererà infinite rievocazioni del personaggio Senna e della sua carriera: ci
sono riti ai quali è impossibile sfuggire e non per niente io stesso, nella mia
banalità, sono qui a digitare righe sull'argomento. Però mi piacerebbe che ad
Ayrton, l'Ayrton che in tanti abbiamo conosciuto e ammirato, venisse risparmiata
la trasformazione postuma in un santino. Perchè si fa un torto all'uomo e alla
storia, quando la storia viene riscritta all'insegna della beatificazione di chi
non c'è più. Voglio dire, giusto per fare un esempio, che era rovinosamente
sbagliata la canzone che a suo tempo Lucio Dalla
volle dedicare all'idolo brasiliano. Non per demeriti musicali, ci mancherebbe:
ma proprio per il testo del brano, che trasfigurava il pilota Senna in un
buonista disposto ad accettare l'idea che tra vittoria e sconfitta non ci fosse
differenza, come se un primo posto o un quinto fossero la stessa cosa.
Bene, anzi male. Se vogliamo rendere omaggio al mito legittimo di Ayrton,
raccontiamolo, nelle canzoni o al cinema o alla tivù, com'era. A chi ha la fortuna di essere troppo giovane per ricordarlo, spieghiamo che Senna viveva per vincere, era ossessionato dalla competizione e in nome di questa sua ossessione era pronto a qualunque sacrifìcio.
Era un uomo unico per abilità di guida, ma era un essere umano come noi sul piano dei sentimenti: fragile, vulnerabile,
portato a conservare gratitudine e rancore nel profondo del cuore.
Nel 1990, quando Prost con la Ferrari stava tentando di riportare il titolo
iridato a Maranello, Ayrton ancora non aveva dimenticato lo sgarbo di Suzuka dell'anno precedente. Sapeva di essere stato
fregato dall'astuzia del grande rivale francese. Con il quale, appunto nel
settembre del 1990, aveva stipulato una simbolica "pace" nella domenica di
Monza.
Qualche giorno più tardi io e lui ci incontrammo
per caso all'aeroporto di Lisbona: Senna aspettava
il padre all'uscita passeggeri, era imminente il Gran Premio del Portogallo
[quello in cui il geniale Mansell mise al muro il compagno di squadra Prost: ma
questa è un'altra storia, si capisce). Ci fermammo a
parlare.
Mi complimentai per la fine delle ostilità
con Alain. Ayrton non mi lasciò concludere la frase.
"No, no, non cascarci" mi disse con quel suo italiano
strascicato, "è tutta una finzione. L'anno passato lui
mi ha buttato fuori perché sapeva che in quel modo si sarebbe laureato campione.
Stavolta la situazione è rovesciata: ti giuro che se per diventare campione
dovessi buttarlo fuori, lo farei. Senza pensarci un attimo: ci sono cose che non
riesco a perdonare."
E lo fece, lo fece veramente poche settimane dopo, ancora a Suzuka, applicando
in maniera brutale la legge del taglione. Confessò pubblicamente
solo successivamente alla conquista del terzo titolo
iridato, nel 1991. Molti si stupirono: non lo avevano
mai conosciuto nell'intimo.
Perché racconto tutto questo? Certo non per
sminuire il ricordo del campione: personalmente
non ho mai visto un pilota forte come lui. Certo non per incrinare l'unicità del
mito: il "mio" Senna, dieci anni dopo, è grandioso proprio perchè era un uomo.
Non un santino.
di Leo Turrini