Andrea De Cesaris
Il 5 ottobre 2014 se n’è andato in
motocicletta, una delle sue passioni assieme alla F.1 e al windsurf. Andrea de
Cesaris ha sempre vissuto una vita alla Vasco Rossi, al massimo, per godere
appieno tutte le emozioni. Tragico destino il suo, di un ragazzo che amava la
velocità, che nella sua carriera ha sfidato la sorte con le F1 degli Anni ‘80,
quelle da mille cavalli dure e rudi che ti spaccavano le mani, ed è andato a
morire a 55 anni in un banale, maledetto e comune incidente stradale.
Era uno dei piloti della nazionale italiana di
kart: ragazzi che si sarebbero fatti le ossa in automobilismo: Roberto Ravaglia,
Corrado Fabi, Felice Rovelli (che vinse quel mondiale e si ritirò dall’attività
agonistica) e poi c’era lui: Andrea. Già allora aveva la grinta e
l’irriducibilità che lo avrebbe caratterizzato in F1: guidava tutto cuore e
aggressività. Finì fuori pista in quel mondiale karting, perché non voleva
accontentarsi del quarto posto e con un sorpasso impossibile cercò di salire in
posizione da podio. Quella sarebbe stata la sua ultima gara di karting: due mesi
dopo era già nella F3 inglese, a nemmeno 19 anni. Sempre appoggiato dalla
Marlboro che aveva un rapporto privilegiato con lui, fu l’unico italiano che
corse per ben due volte con Ron Dennis che con Andrea condivideva lo sponsor:
prima in F2 poi in F.1 con la McLaren nel 1981, al fianco di John Watson.
Ma il carattere irruento di Andrea mal si sposava
con l’atteggiamento pacato di Dennis e il legame non funzionò. I suoi tanti
incidenti nelle formule minori in Inghilterra gli valsero il soprannome di “De
Crasheris”, un po’ come James Hunt che era chiamato “Hunt the shunt” (lo
schianto). Solo che Hunt era inglese e quel vizietto di andare sempre al limite
e rompere spesso la macchina gli veniva perdonato e faceva un po’ glamour,
Andrea invece era italiano e nel panorama anglosassone sempre un po’ ipocrita
verso gli stranieri, lo stesso vizietto diventava una macchia per l’immagine
agonistica.
Spensierato, divertente, estroso. Sembrava un
gladiatore invincibile immune ai rischi di una F1 che all’epoca era ancora
maledettamente pericolosa. Eppure una mattina, aspettando un aereo al bar di un
aeroporto, mi confessò che mai e poi mai, quando avrebbe avuto un figlio, gli
avrebbe permesso di fare il pilota. Troppo pericoloso. Strano detto da lui, che
rischiava la vita e sembrava non avesse paura di niente.
Andrea amava la velocità, il brivido, le emozioni.
E soprattutto gli piaceva padroneggiare qualsiasi genere di veicolo. A motore o
a vela. Voleva migliorare la tecnica in windsurf e non si limitò a praticarlo
spesso, no: andò a vivere alle Hawaii surfando con Robby Naish, il più grande
campione della storia del surf. E divenne un maestro della tavola a vela.
Uguale con le moto: lo appassionavano, si mise a
correre in motocross, tanto che a un Motor Show di Bologna decise di sfidare in
gara i migliori crossisti del mondo e i piloti di velocità americani dell’epoca
a due ruote. Una pazzia. C’erano gente tipo Bob Hannah, Rick Johnson, Freddie
Spencer, Eddie Lawson. E i migliori crossisti italiani e… De Cesaris in mezzo a
loro! Come decidere di giocare a calcio contro Messi e il Barcellona in una
partita valida per gli europei. Ma Andrea in quella specialità che non era sua
ci mise grinta e fisico, e non sfigurò affatto. Era aiutato da un fisico
eccezionale e da una determinazione irriducibile. Era il pilota e lo sportivo
più eclettico che avessi mai visto. L’importante che come denominatore comune vi
fosse la velocità. Su due ruote, quattro o nella planata di una tavola da surf.
Aveva una predisposizione naturale per la guida, un piede pesante incredibile e
un coraggio (forse temerarietà) da vendere. Avesse fatto il pilota F1 all’epoca
di Fangio e Ascari avrebbe vinto tanto, ma forse non sarebbe sopravvissuto a
quella F1.
Amava sdrammatizzare situazioni e pericoli. Una
volta tornò con la tuta infangata e disse: “Che ho fatto? Me so’ girato!”. Si
era cappottato su un terrapieno con la Ligier. Nella sua testa si era girato sì,
ma la macchina aveva ruotato sull’asse longitudinale rovesciandosi, non era un
semplice testa-coda sull’asse verticale!
Andrea ha corso ininterrottamente in F1 per 15
anni, dal 1980 quando esordì con l’Alfa Romeo F1, fino al 1994, quando chiuse la
carriera prima con la Jordan e poi con la Sauber-Mercedes. Ha guidato un po’ di
tutto, ma sempre macchine di mezza classifica anche quando erano scuderie
prestigiose: dalla Ligier, alla Minardi, alla Rial, alla Brabham, alla Dallara,
alla Tyrrell. Finiva nelle squadre “giuste” sempre al momento sbagliato, ma non
per sua cattiva scelta. Era un duro, uno tosto, s’era fatto una grande
esperienza perché in carriera ha corso 208 gran premi F1, uno dei più longevi di
sempre; i team lo sapevano e ricorrevano a De Cesaris e alla sua capacità di
portare al limite anche macchine non competitive quando c’era da tirar su una
squadra dalle retrovie per mettersi in luce. Un po’ come quegli allenatori alla
Carletto Mazzone chiamati a riportare su dalla serie B ex squadre blasonate ma a
cui non viene mai affidata una squadra da scudetto.
Lo chiamò Minardi nel 1986 per svezzare l’acerba
Minardi con il turbo Motori Moderni di Chiti e Andrea alla prima gara quasi la
portò in zona punti prima che il V6 cedesse. Lo volle Ecclestone per far correre
la Brabham-Bmw nel 1987 e metterla in luce soltanto allo scopo di trovare un
compratore per una squadra allo sbando perché Bernie aveva ben altri interessi,
e De Cesaris portò quella macchina – che era la “sogliola” fatale a De Angelis
l’anno prima – a un fantastico terzo posto a Spa.
Secondo Gordon Murray, storico ingegnere Brabham,
era il pilota che aveva fatto più giri in testa senza vincere un Gp. Ma lo
diceva in forma di complimento, non in segno d’irriverenza.
Solo un paio di volte De Cesaris ha avuto davvero
in carriera una monoposto per vincere: l’Alfa Romeo 182 nel 1982 e forse la
Jordan-Ford del 1991. Quella verde con cui debuttò anche Schumacher. E c’è
andato vicinissimo. Con l’Alfa fece la pole a Long Beach 1982, due volte secondo
nel 1983. Con la Jordan fu sfortunato ma avrebbe probabilmente vinto proprio il
Gp del Belgio 1991 a Spa – quello dell’esordio di Schumacher – se il suo V8 Ford
non si fosse rotto nel finale di gara quando era secondo in rimonta. Pensate
alle sliding doors della F1: se con la stessa Jordan con cui debuttò Schumi quel
giorno in F1 Andrea fosse finito a podio, la prestazione del giovane Michael
all’esordio che tanto colpì gli esperti di F1 si sarebbe ridimensionata al
paragone col risultato del compagno di squadra. Invece il destino ha voluto
diversamente e ancora una volta Andrea rimase con le pive nel sacco.
Ma noi ricorderemo sempre Andrea come un vero
racer, come dicono gli inglesi, un corridore, uno dal piede pesante come nessun
altro. Uno che il piede destro dal gas non lo toglieva mai fino all’ultimo. In
fondo detiene ancora il platonico record di esser stato il primo a osare e
riuscire a fare in pieno il terribile curvone di Signes al Castellet con una F1.
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